24 giugno 2021

“Le montagne non sono stadi dove soddisfo le mie ambizioni. Sono cattedrali, grandiose e pure, la dimora della mia religione. Mi avvicino ad esse con lo spirito di chi va ad adorare una divinità. Sugli altari delle montagne mi impegno per migliorare fisicamente e spiritualmente. Al loro cospetto tento di comprendere la mia vita, di esorcizzare vanità, avidità e paure. Dall’alto di quelle cime sospese osservo il mio passato, sogno il futuro e con insolita chiarezza vivo i momenti presenti. La fatica rinnova la mia forza e purifica il mio sguardo. Tra le montagne celebro la creazione, poiché ad ogni viaggio mi sento rinascere.“
“Mountains are not stadiums where I satisfy my ambitions to achieve. They are cathedrals, grand and pure, the houses of my religion. I approach them as any human goes to worship. On their altars I strive to perfect myself physically and spiritually. In their presence I attempt to understand my life, to exorcise vanity, greed, and fear. From the vantage of their lofty summits, I view my past, dream of the future, and with unusual acuteness I experience the present moment. That struggle renews my strenght and clears my vision. In the mountains I celebrate creation, for on each journey I am reborn.“
da Above the Clouds (Anatolij Bukreev & Linda Wylie, 2001)
La distanza dei colossi asiatici
Non ho letto molti libri di montagna dedicati alle cime più alte della Terra. Avverto una distanza incolmabile tra la pianura dove vivo e quei picchi remoti. Distanza non soltanto geografica, ma anche culturale e alpinistica. Himalaya e Karakoram sono un altro pianeta, è davvero difficile comprendere la meravigliosa unicità di quei luoghi per chi quelle cime le ha viste soltanto nei documentari. Sfiorare la mitica soglia dei 4000 metri sulle Alpi è per me una cosa straordinaria nel senso letterale del termine. Come potrei comprendere davvero cosa significhi salire una montagna alta il doppio?
C’è poi un’altra sensazione che ha contribuito a smorzare il mio entusiasmo per i racconti alpinistici ambientati lassù. Per motivi geografici, il mio riferimento quando ragiono sulle cose di montagna sono le Alpi. C’è una differenza sostanziale tra queste ultime e i giganti asiatici. La storia alpinistica delle Alpi è stata in gran parte scritta da locali (allarghiamo la prospettiva all’Europa). Discorso diverso vale per Himalaya e Karakoram, dove le conquiste principali portano la firma di spedizioni occidentali.
Non mi addentro in queste riflessioni, ma è indubbio che la diversità culturale tra mondo occidentale e orientale giochi un ruolo importante in questa differenza. Il desiderio di piantare la bandierina ed esplorare l’ignoto sono prerogative di una cultura che in Asia centrale non sia radicata come nel mondo occidentale. E con questo non voglio assolutamente imporre il primato di una visione rispetto all’altra, solo sottolineare questo scarto.
Il fatto che la grande maggioranza degli alpinisti in Himalaya sia forestiera, ha fatto sì che la mia percezione di chi porta a termine una bella impresa lassù, è quella di “ospite”. Un visitatore di quei monti che spesso è legato a essi da un sentimento fragile. In un certo senso interpreto l’alpinismo himalayano come un fenomeno che si esaurisce soprattutto in una direzione: l’alpinista ottiene ciò che desidera senza stabilire un vero dialogo con il territorio in cui si muove. Mi sembra che a volte manchi un autentico ritorno nell’altro senso, dall’alpinista alla montagna. Ribadisco però che queste riflessioni sono limitate dalla mia impossibilità di comprendere cosa davvero significhi salire quelle montagne, potrebbero essere castronerie.

Cambiare idea
Ci volevano due libri per farmi cambiare idea, i due libri di Anatolij Bukreev. Grazie alle sue pagine ho capito che anche Himalaya e Karokaram possono essere le montagne di casa. Montagne che conosci meglio di tutte e dove vuoi tornare a ogni occasione perché solo lassù ti senti nel posto giusto. Non è esagerato dire che per Bukreev salire un 8000 o un 7000 non fosse troppo diverso dal salire per me una cima delle Prealpi. Non parlo ovviamente di sforzo tecnico e fisico visto l’abisso tra i due contesti. Mi riferisco invece all’approccio di chi si avventura su una montagna e al grado di confidenza che lega una persona a un terreno.
Per me è normale scegliere una meta prealpina, vuoi per una camminata, vuoi per un’arrampicata. Conosco quei luoghi e ho le capacità per affrontarli. So anche che dopo ogni uscita tornerò a casa con qualche bel ricordo in tasca. Credo che per Anatolij Bukreev fosse lo stesso, solo che lui non sceglieva cime di 2500 metri e itinerari battuti e relazionati. Il suo sguardo era sempre rivolto alle cime più alte, dove grazie a un bagaglio formidabile di esperienze poteva muoversi con un livello di confidenza e sicurezza che pochi hanno raggiunto.
Leggendo i libri dell’alpinista kazakho si avverte chiaramente che egli si sentisse in pace con il mondo e con sé stesso solo raggiungendo i luoghi dove l’aria si fa ghiacciata e rarefatta. Tanti forti alpinisti temono quelle altezze e si impegnano per accorciare il più possibile la permanenza lassù. Per Bukreev era diverso, sebbene fosse consapevole della pericolosità delle altissime quote, cercava con tutto sé stesso quegli ambienti disumani perché come lui stesso scrisse:
“La sfida di salire al di sopra dei 6000 metri va oltre il saper gestire la difficoltà della via scelta. È qualcosa che riguarda la fatica di un uomo che si batte per superare la sua innata debolezza. Dal primo giorno seppi di appartenere a quelle altezze e che il mio destino fosse quello di salire alto. Realizzai anche che per me andare in montagna avrebbe istintivamente coinciso con lo sforzo umano di confrontarsi con l’altitudine.”
Storia di Anatolij Bukreev: dagli Urali al Kazakhistan
La storia di Anatolij Bukreev non è soltanto quella di un eccellente atleta che divenne uno dei migliori alpinisti himalayani della sua generazione. È anche quella di chi visse sulla sua pelle gli sconvolgimenti geopolitici che seguirono il collasso dell’Unione Sovietica.

Anatolij nasce nel 1958 a Korkino, una cittadina mineraria ai piedi degli Urali, nell’allora Unione Sovietica. È proprio sugli Urali che comincia a frequentare le montagne. In Unione Sovietica la pratica delle attività sportive e ricreative non era ostacolata, era però rigidamente controllata. Per chi avesse voluto praticare l’alpinismo, era prevista una sorta di carriera strutturata che prevedeva test, competizioni, passaggi di grado e obiettivi da raggiungere. Anatolij Bukreev si immerse in questo sistema con estrema dedizione, trovando anche il tempo di laurearsi in fisica.
Terminata la prima parte della sua formazione, Anatolij fu assegnato all’Unità Alpinistica dell’Asia Centrale, dove completò il suo lungo percorso prima di essere proclamato Maestro di Sport. Si trasferì ad Almaty nel 1979, nell’attuale Kazakhistan, e cominciò a frequentare le alte quote del Pamir e del Tien Shan. Due anni più tardi fu ammesso al Club Sportivo Militare di Almaty che gli fornì uno stipendio e fondi per organizzare uscite sulle vicine montagne. Per rimanere all’interno del Club, Anatolij accettò in quel periodi di diventare anche allenatore di sci nordico. Per dieci anni divise il suo tempo tra l’allenamento dei giovani e l’alpinismo. Ottenne ottimi risultati in entrambi i campi, diverse sue allieve e allievi parteciparono alle selezioni sovietiche per le Olimpiadi e negli stessi anni salì oltre 200 cime di almeno 5000 metri, tra cui una trentina di 7000.
Il grande alpinismo
Il suo ingresso nel mondo delle grandi spedizioni avvenne nel 1989. Dopo aver superato una dura selezione, Anatolij Bukreev fu scelto tra i partecipanti alla seconda spedizione sovietica internazionale. Destinazione Kanchemnjunga: la terza cima del pianeta. La spedizione ebbe grande successo: gli alpinisti riuscirono nell’impresa ancora irripetuta di attraversare le 4 cime del massiccio (tutte più alte di 8400 m). Un libro racconta la vicenda: Kangchenjunga 1989: la grande traversata di Vasilij Senatorov, tradotto e pubblicato in Italia da Monte Rosa Edizioni (qui una bella recensione).
La spedizione fu un trampolino di lancio per Anatolij. Insieme agli altri partecipanti ricevette da Mikhail Gorbachev in persona l’Ordine del Coraggio Personale e l’onorificenza come Maestro Internazionale di Sport, la massima onorificenza sportiva sovietica. Grazie alle nuove opportunità nate da quel successo, Anatolij poté visitare nel 1990 gli Stati Uniti, dove prese parte a una spedizione diretta al McKinley per ripetere la via di Cassin. Considerando la lontananza che separava USA e URSS in quegli anni, fu una cosa eccezionale.
Il contatto con il mondo occidentale impressionò Anatolij Bukreev. Da un lato era affascinato dalla libertà personale praticamente illimitata che veniva lasciata ai cittadini occidentali e dalla generosità dei nuovi amici americani, dall’altra intuiva che in Occidente a governare tutto era il profitto, sia nel bene che nel male.
La fine di un sogno?
Quando la carriera alpinistica di Anatolij Bukreev sembrava ormai in ascesa, l’Unione Sovietica crollò, portandosi via i sogni e i progetti dell’alpinista, che dall’oggi al domani passò dall’essere cittadino sovietico a cittadino kazakho. Il contraccolpo fu duro. Anatolij non poté più contare sullo stipendio da allenatore e alpinista professionista. Non solo; i valori e il sistema sociale che erano da sempre il suo riferimento andarono in frantumi, lasciando Bukreev, insieme a milioni di altre persone, completamente disorientato.
Il periodo fu difficile: da una parte Anatolij aveva bisogno di lavorare, dall’altra sentiva l’irresistibile richiamo delle montagne più alte. Le sue conoscenze in America lo aiutarono e grazie ad esse riuscì a ottenere degli incarichi come guida e a prendere parte ad alcune spedizioni dirette sugli 8000. Senza questo supporto Bukreev non sarebbe mai riuscito a trovare da solo i finanziamenti per i permessi di salita.
Nei suoi diari Anatolij scrisse che in quel periodo non vedeva l’ora di andare in spedizione, non solo per raggiungere le montagne, ma anche perché essere in spedizione voleva dire avere pranzi abbondanti assicurati. Anni dopo egli ricordava sorridendo che in quelle prime spedizioni che seguirono il crollo dell’URSS, era l’unico a metter su peso.
Nonostante l’incertezza e la difficoltà, Anatolij Bukreev in quel periodo riuscì comunque a inanellare una serie di successi alpinistici di prim’ordine. Tra il 1991 e il 1997 divenne un punto di riferimento non solo per gli alpinisti dell’ex-Unione Sovietica, ma per la comunità alpinistica mondiale.

1996: la tragedia dell’Everest
Chi conosce Anatolij Bukreev, probabilmente lo deve alla tragedia che ebbe luogo sulla cima dell’Everest nel maggio del 1996. Quell’anno Anatolij fu assoldato come guida (anche se Anatolij preferiva farsi chiamare allenatore o preparatore) dall’alpinista americano Scott Fischer, un pioniere delle spedizioni commerciali sugli 8000. Il mercato era allora in rapida crescita e Anatolij intuì che entrare nel business fosse uno dei pochi modi che aveva per guadagnare qualcosa senza allontanarsi dalle alte quote.
Per quell’anno Fischer stava organizzando una spedizione all’Everest e volle Bukreev con sé perché aldilà delle sue indiscusse abilità alpinistiche, sapeva anche che grazie alla sua proverbiale resistenza, Anatolij sarebbe stata la persona su cui contare se qualcosa fosse andato storto.
La vicenda è nota, durante l’assalto finale alla vetta dell’Everest 8 persone morirono a causa di una tempesta e della lentezza di alcuni clienti. Tra i morti ci fu lo stesso Scott Fischer. Anatolij salvò in piena notte dalla bufera tre alpinisti, ma ciò non bastò a provocare grosse polemiche che amareggiarono molto il kazakho.
Lo scrittore alpinista americano Jon Krakauer scrisse un libro dedicato a quei giorni (Aria Sottile, Corbaccio). Lo fece da protagonista, essendo uno dei clienti della spedizione che condivise il tentativo alla vetta insieme a quella di Fischer-Bukreev. Nel libro Krakauer accusò apertamente Bukreev di essere uno dei principali responsabili della tragedia. Accusò Anatolij di non aver prestato sufficiente aiuto a chi era in difficoltà e di non essere stato professionale a causa della scelta di non usare le bombole di ossigeno. Molti testimoni criticarono le dichiarazioni di Krakauer, riconoscendo a Bukreev di essere stato l’unico che si impegnò realmente per aiutare gli alpinisti in difficoltà. Facendo fondo alle sue energie ne salvò tre e per questo gli furono assegnati dei riconoscimenti.
Per quanto riguarda l’ossigeno, Anatolij preferiva non usarlo. Lo fece solo sul Kanchemnjunga perché obbligato, e durante una spedizione commerciale nel 1997. Pensava che senza ossigeno fosse più facile percepire le reazioni del corpo alle alte quote e dosare correttamente le proprie energie. Temeva che scalando con l’ossigeno, se per qualsiasi motivo questo fosse finito prima del previsto, il fisico avrebbe reagito con un crollo improvviso che avrebbe potuto essere fatale.
L’acclimatamento era una fissazione per Anatolij. Programmare e seguire con cura maniacale il piano di acclimatamento era fondamentale per lui e visti i risultati, credo proprio che avesse ragione a farlo.

Le vicende dell’Everest del 1996, ebbero un lungo strascico per Anatolij. Non conoscendo bene l’inglese, temeva di non riuscire a spiegare le sue scelte e di non poter smentire le accuse di Krakauer.
Inoltre si sentiva in qualche modo responsabile per la morte dell’amico Scott Fischer e delle altre persone scomparse, sebbene fosse consapevole di aver fatto ciò che era in suo potere fare. Gli amici americani lo convinsero infine a mettere nero su bianco le sue impressioni, evidenziando le imprecisioni riportate da Krakauer e presentando una cronaca quanto più imparziale possibile degli eventi. Fu così che nacque il primo libro di Anatolij, dedicato proprio al racconto della tragedia. Lo scrisse con l’aiuto di Gary Weston de Walt (Everest 1996 – Cronaca di un salvataggio impossibile, Vivalda Editori).
Oltre a raccontare gli eventi di quei giorni, il libro aiuta anche a capire il rapporto che Anatolij aveva nei confronti delle spedizioni commerciali. Il suo obiettivo non era quello di portare in cima i clienti, ma di fornirgli i mezzi e le capacità per farlo in autonomia, cercando di limitare i rischi. Per questo non amava essere chiamato guida, preferiva la definizione di allenatore. Inoltre nel libro è anche raccontato come Anatolij arrivò ad accettare di far parte delle spedizioni commerciali a seguito della complessa situazione che si creò dopo la dissoluzione dell’URSS.
L’ultimo 8000 di Anatolij Bukreev: Annapurna 1997
Anatolij Bukreev scomparve il giorno di Natale del 1997, travolto da una valanga durante un tentativo di salita invernale sull’Annapurna. L’unico che si salvò fu il suo amico e compagno di spedizione Simone Moro, allora giovane promessa dell’alpinismo himalayano. I due si erano conosciuti nell’ottobre 1996 sullo Shisha Pangma e avevano poi condiviso diversi progetti.

Nel breve intervallo di tempo che passò tra la tragedia dell’Everest e la sua morte -circa un anno e mezzo-, Anatolij portò a termine 7 salite su cime di 8000 metri, di cui quattro in soli 80 giorni. Risultato straordinario, soprattutto considerando che Bukreev, a parte in un caso, non utilizzò l’ossigeno.
C’è chi dice che l’attività frenetica di quell’anno e mezzo sia stata una reazione alla vicenda dell’Everest. L’amico Galen Rowell ritiene che con quelle salite serrate Anatolij abbia voluto testare sé stesso, nel tentativo di lasciarsi alle spalle le critiche ingiuste e l’insicurezza che ne era scaturita.
I diari di Anatolij Bukreev
Molte delle informazioni che trovate in questo testo vengono dal secondo libro di Bukreev: Above the Clouds (tradotto in italiano: Un posto in cielo – I diari di un eroe inconsapevole, CDA & Vivalda). Nel libro è raccolta parte dei suoi diari, ordinati dalla sua compagna Linda Wylie. Everest 1996 è un libro ancora in commercio, Above the Clouds è purtroppo più difficile da reperire. Chiunque sia rimasto affascinato da Anatolij Bukreev dovrebbe però procurarselo. Dalle pagine emerge lo spirito di una persona fuori dal comune, condannata a scalare le montagne più alte della Terra.
Nei suoi diari sono anche tangibili le difficoltà che affrontò e l’impegno che profuse per raggiungere i suoi obiettivi, in un momento storico a dir poco complicato. Non un super-uomo, ma una persona attraversata da una passione sconfinata.

Epilogo
Concludo con due brani tratti proprio da Above the Clouds. Il primo è lo stringato racconto che Anatolij fece della sua prima salita all’Everest (ottobre 1991). Il modo in cui arrivò lassù dice tutto del suo approccio alle alte quote e del suo livello di confidenza con quei terreni:
“Per prepararci a una successiva salita in velocità, Kevin e io decidemmo di salire un poco oltre il Colle Sud per acclimatarci. Si infilò i suoi vecchi scarponi Koflach. Lasciammo le tende con calma alle 8.30 del mattino, senza prendere con noi le piccozze, solo i bastoncini. Balyberdin salì con noi per un tratto; aveva con sé la cinepresa. Non gli prestai attenzione, pensando volesse girare qualche scena al Colle Sud. Kevin salì davanti a me per un po’. Avanzavamo facilmente, senza particolare fatica. Alle due del pomeriggio ci trovammo inaspettatamente sulla cima meridionale. Proseguii lungo la cresta sotto all’Hillary Step.
A un certo punto mi voltai: Kevin aspettava alla Cima Sud e mi fece segno di proseguire. Il vento soffiava impetuoso, ma non abbastanza da spingermi giù. Mi trascinai sopra all’Hillary Step usando vecchi spezzoni di corde fisse rimaste dalle spedizioni passate. Sopra a un ripido pendio c’erano i resti degli scalini che gli spagnoli avevano intagliato nel ghiaccio la settimana prima. Continuai a salire. Quasi per caso arrivai in cima, erano le 3 del pomeriggio.”

Il secondo brano è invece il manifesto del senso che Anatolij dava alle conquista delle vette più alte:
“Le grandi montagne sono un mondo a parte: neve, rocce, cielo e aria sottile. Non puoi conquistarle, puoi solo salire alla loro altezza per un breve tempo, e per fare ciò esigono molto. La sfida non ha che fare con un nemico o un avversario, come succede nello sport, ma con le sensazioni innate di debolezza e inadeguatezza. Questa lotta mi affascina ed è per questo che sono diventato alpinista.
Ogni cima è diversa, ognuna è una vita che hai vissuto.
Arrivi sulla vetta avendo rinunciato a tutto ciò che credi sia necessario per vivere e sei solo con la tua anima. Un punto di vista puro, che ti permette di rivalutare te stesso, i tuoi legami e i beni della vita ordinaria con una prospettiva diversa.”
Qui sotto Anatolij che sale sulla cima dell’Everest. Tranquillo e solitario con i suoi bastoncini, come si trattasse di un 4000 qualsiasi. In quel momento era invece l’uomo più alto della Terra e sono sicuro fosse felicissimo di esserlo.
