Un anno dal crollo della Marmolada

Cosa abbiamo imparato a un anno dalla tragedia del ghiacciaio della Marmolada?

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Sono quasi le due del pomeriggio quando un sussulto scuote la montagna. Dalla sommità della Marmolada precipitano 60,000 tonnellate di ghiaccio. La massa gelata all’improvviso è priva di vincoli. Nulla la trattiene e rovina così a valle. Percorrerà due chilometri e durante la corsa travolgerà la via normale di salita a Punta Penia e chi in quel momento la stava percorrendo.

Domenica, sole, estate. Sono questi gli ingredienti che hanno trasformato il crollo del ghiacciaio della Marmolada nella tragedia più grave che abbia coinvolto un ghiacciaio nel nostro paese. Quel giorno sulla Marmolada c’erano tanti alpinisti e alpiniste intenti sulla normale. Undici di loro non hanno fatto ritorno e altri sette sono rimasti feriti.

Da glaciologo ricordo che quella sera rimasi scioccato, intuendo che non stavamo soltanto assistendo a una disgrazia terribile, ma a un cambio di paradigma nella percezione dei ghiacciai Alpini e della loro pericolosità. Prima di quel giorno nessuno pensava che un ghiacciaio di quel tipo potesse crollare in quel modo. Il crollo della Marmolada ci ha mostrato nel più terribile dei modi che i ghiacciai alpini al tempo del cambiamento climatico non si limitano a scomparire silenziosamente.

Un evento diverso dagli altri

Per capire l’eccezionalità del collasso del ghiacciaio della Marmolada dobbiamo fare un passo indietro.

Chi frequenta la montagna sa che gli ambienti glaciali richiedono specifiche accortezze per essere affrontati al meglio. Ci vogliono la giusta attrezzatura, la conoscenza delle manovre di corda e un occhio che sappia “leggere” la condizione dei ghiacciai. Questi sono gli strumenti che utilizziamo per ridurre il rischio quando ci troviamo su un ghiacciaio. Farlo è necessario perché i ghiacciai, al pari di altri ambienti d’alta montagna, sono pericolosi e quando li frequentiamo diventano rischiosi.

Nelle Scienze della Terra il termine pericoloso indica la propensione di un ambiente naturale a essere soggetto a eventi quali frane, alluvioni, valanghe. In questa definizione non v’è traccia del fattore umano. Un ambiente è pericoloso in senso lato poiché dotato di specifiche caratteristiche che prescindono dalla sua frequentazione. Il rischio indica invece la probabilità che l’esposizione a un pericolo naturale produca dei danni a persone o beni. Ne consegue che un luogo molto pericoloso ma non frequentato non è rischioso. Al contrario, bassa pericolosità e alta frequentazione possono combinarsi insieme a innalzare il livello di rischio.

Tanti accorgimenti che prendiamo quando andiamo in montagna hanno il fine di ridurre l’esposizione al rischio, anche se quest’ultimo -è bene ricordarlo- può essere ridotto o gestito, mai annullato.

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Evitare i crepacci è uno degli accorgimenti fondamentali utilizzati per ridurre l’esposizione al rischio.

I rischi cui siamo esposti quando percorriamo un ghiacciaio sono molteplici: il crollo di un seracco, il cedimento di un ponte di neve, la caduta in un crepaccio. Calzare i ramponi, legarsi in cordata, individuare uno specifico percorso, scegliere il momento giusto; sono tutte azioni che riducono i rischi dell’ambiente glaciale. Esistono naturalmente ghiacciai più pericolosi di altri, che comportano rischi maggiori. Prima della tragedia del 3 luglio, alpinisti e membri della comunità glaciologica non riconoscevano particolari criticità al morente ghiacciaio della Marmolada. Il ghiacciaio, il più esteso delle Dolomiti, è ormai ridotto a un insieme frammentato di placche sempre più immobili e quasi prive di crepacci e dinamica. Una struttura passiva in attesa di scomparire che si pensava non avrebbe riservato sorprese. Questa era l’idea che tutti avevano del ghiacciaio della Marmolada.

Come spesso accade dopo una tragedia in montagna, sono stati tanti i commenti riassumibili in “Se la sono andata a cercare”. No, è proprio questo il punto che rende il crollo della Marmolada diverso da altri incidenti. Le vittime della frana di ghiaccio non se la sono andata a cercare perché quel tipo di ghiacciaio era considerato relativamente sicuro, nessuna delle consuetudini alpinistiche è stata infranta quel giorno. Non è un caso se alcune delle vittime fossero guide alpine e persone esperte. Quel giorno sul ghiacciaio avrei potuto esserci anche io e tanti altri appassionati di alpinismo.

Cosa dice la scienza

A distanza di un anno dalla tragedia le certezze sul crollo della Marmolada non sono molte, gli studi sono ancora in corso. Una cosa però sembra verosimile. Il cedimento del ghiacciaio è stato provocato dal forte stress prodotto dalle alte temperature della scorsa estate. Il 3 luglio 2022 era il 23mo giorno consecutivo che sulla cima della Marmolada si registravano temperature positive. Per oltre tre settimane il ghiacciaio è stato avvolto in una cappa di aria calda che ne ha provocato la fusione continua.

Di norma i ghiacciai in estate vanno in fusione di giorno, ma nelle ore notturne tornano in una condizione di rigelo, con temperature negative. Questa alternanza fa sì che l’indebolimento prodotto dalla fusione possa essere almeno parzialmente assorbito nella notte. Ma se manca il rigelo, il ghiacciaio diventa più debole ogni giorno che passa. Il pomeriggio del 3 luglio il ghiacciaio è crollato perché la sua struttura interna, fiaccata da quasi un mese di fusione continua, ha ceduto, probabilmente aiutata dal forte peso dell’acqua di fusione che intanto inzuppava il ghiacciaio fin nei suoi strati più profondi.

Queste dinamiche di cedimento non lineare, sempre più frequenti nel contesto del cambiamento climatico, sono rapidamente diventate uno dei principali oggetti di ricerca in ambito glaciologico. Gli scienziati stanno imparando che i ghiacciai soggetti a tassi di fusione elevati e duraturi vengono indeboliti non soltanto in superficie, ma anche in profondità e in modo occulto, con conseguenze difficili da prevedere. Siamo però solo all’inizio di questi studi e un anno fa nessun glaciologo alpino avrebbe espresso dubbi sulla stabilità della placca di ghiaccio che ha ceduto. La conclusione che il crollo della Marmolada fosse imprevedibile è stata inoltre confermata dalla commissione di esperti chiamata dagli inquirenti a produrre una perizia ufficiale sull’accaduto.

Quale insegnamento per il futuro

Se l’imprevedibilità del crollo della Marmolada è ampiamente riconosciuta, molto più incerto e variegato è il ventaglio di implicazioni che esso ha proiettato sul futuro. Archiviare una tragedia di tale portata con l’etichetta di evento imprevedibile non deve essere un punto di arrivo, bensì di inizio. Se così non fosse arriveremmo nuovamente impreparati al prossimo evento simile che prima o poi si verificherà sulle Alpi.

Non aver pienamente compreso cosa è accaduto deve essere uno stimolo per migliorare la conoscenza dei ghiacciai alpini. Solo indagando a fondo diventerà forse possibile dare un senso a quell’aggettivo -imprevedibile- che rimarrebbe altrimenti una parola vuota e indefinita. La tragedia del 3 luglio deve essere il punto di partenza per nuovi studi sul comportamento dei ghiacciai al tempo del cambiamento climatico. Allo stesso modo, quanto successo sulla Marmolada dovrebbe incoraggiare delle riflessioni circa l’adeguatezza delle consuetudini che più o meno consapevolmente seguiamo quando frequentiamo gli ambienti glaciali. Cambiano i ghiacciai, cambia il modo di affrontarli.

La scienza si è messa in moto e ad oggi diversi progetti di ricerca stanno partendo con l’obiettivo fi studiare la rapida e a tratti imprevedibile trasformazione dei ghiacciai alpini. Al contrario, la discussione su come adeguare la frequentazione dei ghiacciai è a mio avviso ancora poco sviluppata. La scienza sta studiando che la pericolosità glaciale degli anni 2020 non è quella del passato, chi si impegna per migliorare la gestione dei nuovi rischi?

A farlo sarebbe opportuno fosse il variegato insieme di realtà, istituzioni e sensibilità, che orbitano intorno alla frequentazione delle Alpi. Creare dialoghi tra mondi distanti non è mai semplice, ma ci vorrebbe uno sforzo affinché i principali attori coinvolti si impegnassero a farlo. Penso alle guide alpine, il CAI, gli enti di governo del territorio alpino e tutti i frequentatori della montagna, senza dimenticare la scienza. Quest’ultima quando si parla di cambiamento climatico dovrebbe sempre fungere da bussola per orientarsi.

Le consuetudini alpinistiche che seguiamo in alta montagna sono state definite da esperienze compiute sotto al segno di un clima che non esiste più. Le condizioni al contorno stanno rapidamente cambiando, rendendo molte di quelle prassi obsolete. Un tempo era impensabile che un ghiacciaio non fosse soggetto a rigelo notturno per diverse settimane consecutive. La frescura notturna consolidava le viscere dei ghiacciai anche dopo le giornate più calde, mitigando fortemente la loro pericolosità, specie nelle prime ore del mattino. L’aumento delle temperature fa sì che ciò avvenga sempre più raramente nella parte centrale dell’estate. Per intere settimane molti ghiacciai giacciono al di sotto della quota dello zero termico, di giorno come di notte.

Non a caso il crollo della Marmolada è avvenuto al culmine di un’ondata di calore durata quasi un mese. Le nuove condizioni ambientali e climatiche impongono delle riflessioni da parte di chi percorre i ghiacciai e l’alta quota in estate. Nel mio piccolo questi sono i consigli che mi sento di dare per limitare i rischi derivanti dalla frequentazione estiva dei ghiacciai alpini al tempo del cambiamento climatico:

  • Le tradizionali regole per la frequentazione dei ghiacciai non sono più attuali. Le condizioni climatiche sono cambiate, allo stesso modo devono cambiare le consuetudini alpinistiche.
  • Un tempo si consigliava di frequentare i ghiacciai d’estate nelle prime ore del giorno, quando l’effetto del rigelo notturno comportava il massimo consolidamento. Oggi i ghiacciai posti sotto ai 3500 metri spesso non sono soggetti a rigelo notturno nei mesi estivi.
  • Prima di percorrere un ghiacciaio bisognerebbe consultare la quota dello zero termico, e non soltanto nel singolo giorno d’interesse ma anche in quelli precedenti e nelle ore notturne.
  • Quando lo zero termico si mantiene per lunghi periodi al di sopra della quota del ghiacciaio considerato, è plausibile che l’apparato in questione abbia subito forti stress prodotti dalla fusione. Sono queste le situazioni potenzialmente a maggior rischio di crolli e cedimenti.
  • Se si verificano le condizioni del punto precedente bisognerebbe prendere in considerazione la scelta di un momento più fresco per accedere al ghiacciaio.
Crollo glaciale - calderone - ghiacciaio di lares - cambiamento climatico
Un calderone aperto sul ghiacciaio di Lares, nel gruppo dell’Adamello. Queste forme di crollo stanno diventando sempre più frequenti a causa dell’indebolimento del ghiaccio prodotto dalla fusione. Fotografia di Cristian Ferrari (commissione glaciologia SAT).

Questo è solo un primo, e forse banale, passo. Spero che qualcuno colga lo spunto per ampliare e approfondire il discorso, sarebbe importante. Il clima sta portando a grandi trasformazioni sulle montagne, percorrerle come nulla fosse non è solo il sintomo di una scarsa consapevolezza di tali mutamenti, è anche una nuova fonte di rischio che dobbiamo imparare a conoscere.

2 thoughts on “Un anno dal crollo della Marmolada

  1. Grazie, bell’articolo, spero tu torni a scrivere più spesso, perchè seguo sempre con molto interesse i tuoi interventi, oltre a essere un piacere anche la scorrevolezza della tua scrittura.
    Giusto per dare un attimo due coordinate, sono laureato in Comunicazione delle Scienze e ho una laurea triennale in Scienze geologiche, oltre a una passione per meterologia e clima da penso sempre, approfondita a partire dai 14-15 anni.
    La cosa che mi colpisce sempre quando sento e leggo di tragedie è proprio questo “era un alpinista esperto”, poi però leggo magari in quali condizioni ha fatto questa uscita, e mi vengono i brividi: magari quando era da giorni che erano previsti precipitazioni pesanti, o un caldo folle sui ghiacciai.
    Intendo dire: molto spesso ho la sensazione che gli alpinisti siano molto bravi dal punto di vista tecnico, quindi conoscono i materiali, le vie da seguire, però poi non hanno una preparazione legata al clima della zona, altrimenti certe uscite non le avrebbero fatte, e potrei tirare in ballo una miriade di eventi in cui persone molto esperte, non hanno tenuto in considerazione condizioni climatiche pericolose.
    Di conseguenza, a mio parere ci vorrebbe molta più consapevolezza meteorologica, climatica e anche geomorfologica degli ambienti in cui si va a fare alpinismo, perchè altrimenti davvero rimaniamo senza bussola, persi in balia degli eventi causati dal clima che cambia.

    1. Ciao Simone, ti ringrazio per i complimenti. Purtroppo il tempo a disposizione non è molto, ma spero anche io di riuscire a pubblicare un pochino più spesso nei prossimi mesi, mi impegnerò!

      Sono d’accordo con te, la preparazione tecnica è fondamentale ma da sola non basta, soprattutto in alta montagna, dove l’ambiente è più difficile da leggere. Poi il cambiamento climatico sta cambiando le carte in tavola, estremizzando dei pericoli che prima erano più limitati o addirittura assenti. Il fine di questo articolo era proprio sottolineare questa mancanza e stimolare chi di dovere a proporre le adeguate misure per diffondere una maggior consapevolezza dei rischi in montagna al tempo del cambiamento climatico. Da un lato concordo che spesso chi fa alpinismo lo fa sottovalutando questi pericoli, ma è anche vero che chi dovrebbe educare in tal senso lo fa poco e male… La colpa è un po’ di tutti quanti a mio avviso. Grazie ancora per aver condiviso il tuo pensiero!

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